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mercoledì 2 dicembre 2015

Terrorismo, il primo sorvegliato speciale Arben: «Per me Islam significa pace»

Terrorismo, il primo sorvegliato speciale
Arben: «Per me Islam significa pace»
Il macedone vive nel Vicentino: era vicino alla cellula che predicava la guerra santa. Sui social minacciava il Papa
ARZIGNANO (VICENZA) Arben Nabi Suma è un trentenne alto con la testa rasata e la barba lunga. Scende da un’auto scura, nel parcheggio di una conceria nella zona industriale di Arzignano, nel Vicentino. E l’idea di essere stato rintracciato sul posto di lavoro, non gli piace affatto. All’inizio cerca di sviare. «Terrorismo? Sbagli persona». Gli va male: dal sedile del passeggero spunta l’ordine di perquisizione eseguito qualche ora prima dalla Digos di Brescia. E a quel punto si agita, alza un po’ la voce e alla fine si arrende e dice che «sì, è vero, la polizia è venuta a casa mia». Però non ci sta a passare per un 
fanatico. «Non c’entro con il terrorismo. Come potrei dimenticare che Islam significa “Pace”? E allora io non ho niente a che fare con la guerra santa». A questo punto sembra intenzionato a dimostrare a tutti i costi la sua innocenza. Fa segno con la mano di seguirlo, verso gli uffici amministrativi dell’azienda. «Chiedi a chi vuoi, chiedi ai miei colleghi, a chi mi conosce: ti diranno che sono una brava persona, che non è vero quello che dicono di me».


Quello che dicono di lui, è che il macedone Arben Nabi Suma - pur non essendo formalmente iscritto nel registro degli indagati - rappresenta un potenziale pericolo, al punto che nei suoi confronti è stata chiesta la «sorveglianza speciale » per cinque anni, il primo provvedimento di questo tipo spiccato in Italia. L’inchiesta bresciana gli attribuisce contatti con il kosovaro Samet Imishiti, ritenuto il leader del gruppo individuato dall’antiterrorismo, e la conferma starebbe anche nel ritrovamento - all’interno della sua abitazione - del testo di un imam che predica l’annientamento degli infedeli. Ma lui, di nuovo, scuote la testa: «Non è vero. I poliziotti volevano sapere se conoscevo una persona, ho risposto che non l’ho mai vista in vita mia. Poi, in casa, hanno trovato il Corano e altri libri in arabo, nulla a che fare con il combattimento». Arben abita a una manciata di chilometri da quella conceria, nell’appartamento all’ultimo piano di una palazzina appena fuori dal centro di Arzignano. «Fino a qualche tempo fa aveva solo lavori saltuari - racconta una vicina - ma ora le cose sembrano essersi sistemate. Ed è una fortuna, visto che sua moglie aspetta un altro figlio ». Il percorso spirituale di questo macedone lo si intuisce scorrendo i tre diversi profili che gestisce su Facebook. Le prime foto risalgono a quattro anni fa e lo mostrano senza barba, gli occhiali da sole, mentre gioca con la primogenita. «È la mia principessa», scrive. Passano i mesi e i toni cambiano. Ora la bimba indossa il velo e le foto lo mostrano mentre le insegna a pregare. Pubblica lunghi sermoni e i messaggi si fanno sempre più insistenti, sono centinaia. Perlopiù versetti del Corano anche se presto compaiono filmati della guerra in Siria, le immagini dei bambin
uccisi nei raid e dei «fratelli» che si battono per lo Stato islamico.


Lancia moniti contro gli ebrei e i Paesi occidentali. Poi una donna con il burqa e la bandiera nera dell’Isis, e lo slogan, tradotto dall’arabo: «La Jihad è per la causa di Allah» Il 14 novembre, all’indomani degli attentati in Francia invita a «pregare per Parigi nella stessa misura in cui loro piangono per il sangue dei musulmani». Pubblica una vignetta con il premier Hollande che dà fuoco alla Siria mentre l’Isis accoltella la Francia. La giornata successiva alla strage del Bataclan sembra trascorrerla incollato al computer, mettendo in Rete una decina di messaggi. Poi pubblica il video del sermone di Rexhep Memishi, l’imam macedone arrestato ad agosto dalla polizia kossovara con l’accusa di appartenere a una cellula legata all’Isis il cui obbiettivo era quello di raccogliere finanziamenti per il Califfato e reclutare nuovi combattenti. Ma di tutto questo, fuori dalla conceria di Arzignano, Arben non parla. «Non sono un terrorista», si limita a ripetere quest’uomo che, come un moderno dottor Jekyll e mister Hyde, pare sospeso tra la realtà di tutti i giorni, fatta di figli e lavoro, e quell’identità virtuale, il profilo di un combattente che dà sfogo a pensieri terribili.

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